L’antico acquedotto della città di Ischia, altrimenti detto “dei Pilastri”, tra disinteresse e incuria: monumento vero o impaccio urbanistico?

Breve rivisitazione storica con notazioni architettoniche e strutturali, vicende umane vere o presunte.

Premessa: La curiosità come elemento motore per superare la familiarità distratta della percezione del nostro intorno.

(A breve, l’articolo sarà arricchito con fotografie e video.)

Ho riflettuto a lungo sul concetto di familiarità dei singoli individui nei confronti del loro intorno spaziale in cui si svolge gran parte della loro vita. Carattere, quello della familiarità, che assume un connotato rassicurante dal punto di vista psicologico, in quanto costruisce un elemento percettivo  stabile che diventa parte concreta della vita di un individuo a cui riferirsi con costanza.

La familiarità è una condizione che si acquisisce in modalità stratificata nel tempo, e diventa parte integrante della vita dei singoli.  Per la modalità di deposito nella mente, con continue conferme reiterative di superficie, la familiarità dell’intorno spaziale, nella maggior parte dei casi assume contorni sfumati che sconfinano spesso in una incompletezza distratta. In tutto ciò assumono elementi di valore fondamentali l’età dei singoli individui, la loro formazione culturale, il temperamento, la sensibilità personale, ecc.

Nel caso più comune il superamento della familiarità distratta e incompleta, viene indotto da un fattore imprevedibile e casuale, che consegue in un soggetto la curiosità indagativa su uno o più parti del proprio mondo sensibile.  I fattori possono essere anche concomitanti, ma più spesso ordinati in una successione ca-u-sa-le e unidirezionale, ovvero come potrebbe dirsi nel linguaggio ordinario: da cosa (stimolo), nasce cosa. Ovvero da una percezione qualitativa e/o quantitativa, si innesca un interesse per una percezione sempre più dettagliata che alla fine porta all’acquisizione di un numero sempre maggiore e più vicina ad una realtà oggettiva qualificabile per tale per forme, contenuti e funzioni.

Queste ultime poi distinguibili in primarie del passato o del presente. O anche di funzioni attuali primarie che non necessariamente devono coincidere con quelle degli inizi. Ovvero funzioni secondarie e quindi concomitanti, che con il decorrere del tempo divengono primarie. Per annullamento o perdita di quelle originarie.

Funzioni primarie concomitanti, di opportunità: variabilità temporali

Se infatti la funzione primaria delle origini della nostra opera era certamente quella di recare acqua da una sorgente, ad una o più destinazioni di utilizzazione, quelle concomitanti o secondarie o non esistevano proprio o non erano percepite in maniera significativa.  Vedremo nel prosieguo di questo lavoro, che le cose non stavano affatto così. Ma ritornando ai giorni nostri, è facile per chiunque rendersi conto che la funzione primaria originaria (acquedotto) è andata persa, mentre sono assurte a quel ruolo la funzione storico-monumentale, architettonica, e paesaggistica.  Mentre sono state acquisite o potrebbero rendersi possibili altre funzioni concomitanti che potremmo definire di opportunità: come ad esempio il passaggio di cavi tecnologici, il posizionamento di dispositivi di illuminazione, di videosorveglianza, ripetitori di segnali, cartellonistica e segnaletica stradale, ecc.

L’Acquedotto antico di Ischia, quello che noialtri ischitani individuiamo (impropriamente) come I PILASTRI, è uno dei casi in cui si può verificare agevolmente come la familiarità contribuisce ancora oggi ad una percezione imperfetta ed incompleta del nostro intorno spaziale e sensibile.  Si tratta di una costruzione umana, ma lo stesso ragionamento può essere benissimo trasferito in contesti diversi, come ad esempio quelli naturalistici.

Se infatti intervistassimo a caso persone di Ischia, poniamo che vivono nelle strette adiacenze di quel monumento, e domandassimo loro come sono fatti, quali sono i loro particolari, se c’è qualcosa che colpisce la loro attenzione, la risposta che ne riceveremmo, sarebbe abbastanza banale, del tipo: “Sono dei pilastri costruiti con pietre con sopra degli archi“. Una ulteriore domanda potrebbe essere la seguente: Secondo te, a cosa servono? Ho verificato di persona più volte come la maggioranza risponde di non saperlo, o vagamente che una volta vi scorreva l’acqua. Ma alla richiesta di come o di quando, la maggior parte degli intervistati si perde nella risposta negativa. 

All’invito di osservarli con più attenzione, in tutto il percorso, o indicando loro parti precise per cercare elementi di diversità, la risposta è stata sempre negativa, ovvero: “No, per me sono tutti uguali, non vedo nessuna differenza.” 

Ma la cosa più straordinaria che ci conferma come la familiarità chiuda gli occhi anche a persone da cui non te lo aspetti, si verifica quando chiedi ad ingegneri ed architetti (non me ne vogliano!), che incappano nella stessa condizione.

La mia esperienza personale

Confesso che nemmeno io non sono stato esente dal fenomeno della familiarità distratta e quasi indifferente nei confronti dell’antico Acquedotto di Ischia, ed anche di altre parti del mio paese. Ma forse ad una gradazione un tantino minore rispetto alla media. In ciò aiutato dalla propensione innata all’osservazione diretta e curiosa di quante più cose possibili che mi circondano. Come ad esempio stando ad Ischia Ponte, fermarsi in corrispondenza di un antico palazzo e volgere lo sguardo verso il suo prospetto frontale per coglierne quanti più dettagli possibili.

Oppure di osservare come sui tetti del Pio Monte della Misericordia a Casamicciola, sia spontaneamente nata e sviluppata fino allo stadio adulto una vera e propria pineta di pini d’Aleppo.  Mi è capitato già diversi anni orsono di ripetere la stessa operazione con i PILASTRI, dopo tanti di eccessiva familiarità. E di averne colte non a caso diversità notevoli nel suo percorso, che di seguito si elencano.

Anzitutto si segnala come il portale, quello per intenderci sotto cui transita il traffico veicolare da e per Barano, segna una linea di demarcazione tra due fronti opposti, che menano l’uno (quello est) alla località S. Antuono, e l’altro ( in direzione ovest)  verso la località Spalatriello. Le differenze più significative si riscontrano proprio confrontando questi due distinti tratti.

Cerca le differenze

È il gioco che quasi in tutte le riviste di enigmistica viene proposto ai lettori, anche con altri titoli, come ad esempio AGUZZA LA VISTA. Si tratta di mettere a confronto due immagini apparentemente uguali, ma che nascondono differenze anche piccolissime, che sfuggono ad una visione affrettata e distratta. Lo stesso gioco, ma in maniera più semplice viene proposto ai bambini per indurli ad aumentare il loro spirito di osservazione.

La differenza meno significativa, e percepita quasi da tutti in modo quasi immediato, è la diversa altezza totale e non costante della sovrapposizione dei due ordini di arcate, in dipendenza della conformazione altimetrica del suolo su cui furono costruiti. Ma taluni non percepiscono nemmeno che il tratto est è significativamente meno alto del tratto ovest: bisogna farglielo notare!

Ma andiamo per ordine:

Consolidamenti bilaterali delle pilastrate su entrambi i fronti: Si osservano chiaramente i contrafforti a barbacane che dalla base di ogni pilastrata reggi–arco si spingono fino alla sommità del primo ordine di archi. Ma in pochi colgono il particolare che quei contrafforti sono giustapposti ad un primo disegno dei pilastri stessi che ne erano evidentemente privi in partenza. Lo dimostrano gli incastri di aggancio discontinui nella muratura originaria.

Perché questa soluzione? Per comodità costruttiva, o perché si era ritenuto di aver commesso un errore di valutazione statica a cui porre riparo? Si propende decisamente per la seconda soluzione in quanto sarebbe stato più efficace costruire direttamente in quella modalità. Ma di quale errore si resero conto i costruttori, tale da indurli a ricorrere ad una simile soluzione riparativa? La più accreditata è quella della necessità, prima non stimata, di ricorrere ad un secondo ordine di archi per superare efficacemente la depressione del luogo per consentire il naturale deflusso dell’acqua verso il suo destino finale, la città di Ischia.  Ipotesi più che realistica.

C’è però sempre un “ma” in agguato, e vediamolo: Il tratto ovest registra altezze totali nettamente superiori al tratto est, e già nella costruzione del primo ordine, quindi la necessità di un sopralzo notevole con il secondo ordine, giustifica nettamente i consolidamenti. Ma il tratto in direzione opposta, S. Antuono, con quote via via crescenti, realizza altezze totali molto più basse, addirittura si arriva a meno della metà delle omologhe sull’altro versante*. Allora perché consolidare anche in quella porzione? La risposta che tecnicamente sembra indicare una incongruenza, anche piuttosto dispendiosa sotto il profilo economico, potrebbe in ipotesi essere di natura completamente diversa: La omogeneità costruttiva imposta da fattori estetici e formali.

Adottare soluzioni diverse sarebbe stato, per così dire, poco gradevole dal punto di vista della visione d’assieme, poco armonica. Ma come vedremo nel seguito ci furono evidentemente altri ragionamenti di natura strutturale che si posero i responsabili della costruzione.

Spessori diversi per parti diverse: Il gioco della ricerca delle differenze può mostrarsi via via più appassionante, specialmente se diversamente dal gioco, non si conosce il numero preciso delle differenze da individuare.  Se si guardano attentamente i pilastri usando come punto di osservazione più adatto allo scopo il versante sud, ovvero quello rivolto verso Barano, e si confronta il lato sinistro con quello destro, si possono cogliere facilmente sul prospetto frontale spessori più grandi in tutta la costruzione sul secondo (destro) rispetto al primo (sinistro).

Se poi si vanno ad osservare le pilastrate nel verso della loro profondità, si coglie la stessa differenza, ovvero    larghezze notevolmente superiori sempre a favore del lato rivolto verso S. Antuono.  Quale la giustificazione di tale diversità costruttiva?  Un’ipotesi plausibile potrebbe essere così articolata:

a) il differimento di diversi decenni del secondo tratto rispetto al primo, al netto della percezione della necessità di un secondo ordine di archi per motivi di efficacia idraulica, rese palese che i primi pilastri fossero troppo snelli e quindi staticamente inadeguati. Passando al tratto in salita verso S. Antuono, si decise per una costruzione più robusta con aumento degli spessori totali, armonizzati tra loro sia sul prospetto frontale che in sezione trasversale;

b) la constatazione successiva nell’errore di calcolo idraulico, imponendo la elevazione di un secondo ordine di archi, richiese il consolidamento degli archi costruiti sul tratto ovest, replicato poi per motivi di omogeneità architettonica ed estetica, anche sul fronte opposto. Ma in ciò realizzando si dovevano replicare spessori più consistenti anche nella sopraelevazione.

Anzianità delle diverse parti: Non si conosce una cronistoria precisa e dettagliata della costruzione dei Pilastri. Ma già quanto riferito nei paragrafi precedenti, può far intuire che vi sia un diverso grado di anzianità tra i due fronti più volte segnalati: più anziano il fronte ovest, e per logica conseguenza più giovane quello rivolto ad est. Impossibile sia la coevità che l’inversione pura e semplice, per la elementare constatazione che non si abbandona una soluzione costruttiva ottimale con una tecnicamente più carente.

Ne deriva un evidente paradosso costruttivo: la parte che meritava maggiore robustezza è invece risultata staticamente più debole! L’età più tarda del primo tratto la si può desumere anche dal più accentuato grado di erosione operata dagli agenti naturali ed atmosferici (pioggia, vento, caldo-freddo, chimismo, sviluppo di vegetazioni epifitiche quali licheni e muschi, ecc.) sulla porzione che sale verso lo Spalatriello, rispetto a quella contrapposta verso S. Antuono. Un’analisi chimico-fisica delle malte idrauliche impiegate come leganti nella costruzione, potrebbe dare conferme a queste congetture.

Tubi di coccio nel primo ordine di archi: L’osservazione attenta dell’opera ha evidenziato un’altra differenza significativa tra le due porzioni ovest ed est dell’acquedotto. Partendo dallo Spalatriello si notano alla sommità del primo ordine di arcate dei tubi di coccio che corrono lateralmente e superano all’esterno la base del secondo ordine. Questo per circa la metà della lunghezza del tratto, prima di intercettare il portale dell’opera. Da quel punto in avanti gli stessi tubi di coccio attraversano centralmente i pilastri superando così i loro spessori.

Che significato ha questa osservazione? L’unica spiegazione possibile è la seguente: quel punto di demarcazione evidenzia epoche diverse di costruzione. Ovvero, fino al punto con tubi piazzati all’esterno un’epoca antecedente alla successiva, forse anche di parecchi anni, ma non è dato saperlo con certezza perché mancano documenti che lo comprovano, ovvero l’ottantennio circa che separa l’era del TUTTAVILLA, l’iniziatore, da quella del vescovo GIROLAMO ROCCA, conclusore dell’opera. E su questo forse possono emergere ragionamenti che possono avvalorare tale tesi.

Cosa infatti ci induce a capire la circostanza che sulla sommità del primo ordine di archi non vi sia una canaletta di scorrimento dell’acqua? Forse che già si sapeva che occorreva un sopralzo con una nuova traccia di arcate per motivi di efficacia idraulica? O, all’opposto, la possibilità intravista di poter fare a meno del secondo ordine quando si affrontò il secondo tratto verso la base della collina di S. Antuono, e quindi la decisione di piazzare al centro del colmo della prima arcata i tubi da quel tratto in avanti, e porre riparo nel primo tratto piazzando colà i tubi in un allineamento esterno a quello già costruito? Quante volte costruita una casa ci si accorge di non aver previsto un tratto di impianto idraulico o una linea elettrica sottotraccia, e ci si accontenta di porla in posizione esterna per non demolire mura già completate!

Ma c’è una terza ipotesi anch’essa molto plausibile, ancorché non pienamente dimostrabile: ad opera completata, far defluire l’acqua in una conduttura secondaria collegando la canaletta superiore di scorrimento, probabilmente in maniera discontinua ed estemporanea ( secondo necessità!),  nei tubi piazzati sul primo ordine di archi. Ciò a beneficio della zona di attraversamento dell’acquedotto.

Materiali impiegati nella costruzione:  In alcuni lavori di autori isolani ( vedi nel prosieguo un elenco di scritti sull’argomento) si menzionano spesso le pietre pomici, forse come principale materiale impiegato nella costruzione , insieme a mattoni di terracotta, e malta.  Si cita anche l’arso come cava di estrazione delle pietre, e di boschi da cui ottenere la paleria necessaria per le impalcature. Mi sembra necessario fare un poco di ordine in questo scenario. 

Anzitutto è meglio chiarire subito che le pomici come tali, ovvero come rocce vulcaniche effusive, quindi molto leggere, ebbero un impiego molto limitato in quanto poco idonee dal punto di vista della resa statica della costruenda opera.  Infatti le rocce impiegate in maniera elettiva furono le trachiti compatte di tipo intrusivo cavate appunto dai punti più vicini all’area di intervento. È da sempre prassi consolidata avvalersi dei siti di prelievo di più vicino, agevole e comodo prelievo. 

Quindi non necessariamente doveva trattarsi delle attuali pinete, ma sicuramente da zone più vicine, come ad esempio quella che ruota tra le attali vie  dell’Amicizia e via Fasolara. A vista si può verificare che non furono affatto impiegate le trachiti grigio chiare che è dato osservare lungo i costoni che costeggiano via Michele Mazzella e frutto dell’eruzione del vulcano dello Spalatriello. All’epoca probabilmente quei banchi rocciosi o non erano visibili, oppure si ritenne troppo difficoltosa la loro demolizione per ricavarne conci da costruzione. Per ritornare alle pomici, va notato che il loro impiego fu riservato, e nemmeno più di tanto, alla conformazione degli archi a tutto sesto del secondo ordine dell’impalcato.

Come succedaneo dei mattoncini di terracotta. Per quali ragioni? Probabilmente per:

a) essere più economici rispetto ai laterizi, in quanto abbondanti in natura e di facile prelievo e lavorabilità in modalità sagomatrice in conci;

b)  in quanto più leggeri e non gravanti  in maniera importante sul sovraccarico e la conseguente tenuta statica del primo ordine delle arcate.

Sta di fatto che la soluzione diversificata (mattoni sotto, pomici sopra) è stata impiegata per tutto il percorso   dell’opera. Per quanto riguarda la malta impiegata come legante, non esistendo al tempo gli attuali cementi, si ricorresse alle antichissime e ben conosciute malte idrauliche a base di calce idrata altrimenti conosciuta come calce spenta. Ovvero ottenuta dallo spegnimento della calce viva, che chimicamente corrisponde all’ossido di calcio (CaO) che a sua volta si ottiene ancora oggi dalla cottura ad alta temperatura (800 °C.)del carbonato di calcio (CaCO3).

Dalla reazione esotermica della calce spenta in acqua, si ottiene la calce idrata (Ca(OH)2 ) impiegata per la produzione di malte idrauliche la cui composizione classica migliore è costituita da una miscela di sabbia silicea per circa 2/3 (od anche calcarea), pozzolana per 1/3, calce spenta appunto, ed acqua. Non è dato sapere se in occasione della costruzione dell’acquedotto si sia partiti da rocce calcaree cotte in forni direttamente sull’isola (ad esempio nelle stesse fornaci impiegate per le terracotte, presenti da tempi immemori sull’isola) o la calce viva venisse trasportata sull’isola dalla terraferma, per poi provvedere al suo spegnimento sul posto.

La prima ipotesi potrebbe essere suffragata dalla circostanza che la calce viva è un materiale molto pericoloso quando viene a contatto con l’acqua per la violenta reazione esotermica che sviluppa. cosa che oltre al pericolo per le persone rappresentava anche un rischio per la possibile perdita del prodotto in caso di incidente nel percorso marittimo verso l’isola, quando la calce viva poteva venire a contatto con l’acqua del mare.

Come vedremo in altra parte di questo lavoro l’impiego della malta idraulica, con modalità molto particolari, fu importante anche per la impermeabilizzazione delle canalette costruite per far scorrere l’acqua dalla sorgente al suo destino finale. La sabbia impiegata era certamente quella che ancora oggi ischitani anziani designano come lavarina, ovvero depositata dallo scorrimento superficiale delle acque meteoriche lungo la idrografia minore ed intermittente dell’isola. Ma non è improbabile l’uso di sabbia vulcanica da giacimenti locali, od anche il ricorso a malte idrauliche non eccellenti in quanto povere o prive affatto di sabbia.

Nota particolare:  Dai muratori isolani  molto anziani  si è potuto apprendere come l’impiego delle malte idrauliche non consente l’innalzamento veloce di murature anche di altezze modeste. Ciò in quanto il chimismo della presa di quelle malte (sostanzialmente riconducibile alla cristallizzazione e insolubilizzazione della componente calcica in modalità inglobante e legante degli inerti impiegati) è molto lento.

Di conseguenza la tenuta degli assetti costruiti rispetto al sopralzo poteva avvenire solo quando ci fosse stata una buona presa. Si procedeva quindi al sopralzo con molta prudenza e facendo trascorrere un tempo variabile dai 10 ai 15 gg. tra due parti sovrapposte di debole spessore. Ciò anche in dipendenza della qualità dei materiali impiegati, del clima, del tipo di costruzione, ecc.

Un’opera per portare acqua che ha bisogno di tanta acqua: per la costruzione dell’acquedotto fu necessaria tanta acqua come è ovvio immaginare oggi a più di quattro secoli di distanza. La penuria di acqua in quell’epoca poteva essere sopperita solo con una ricca dotazione di cisterne, o con l’approvvigionamento dalle poche sorgenti dell’isola. Si può immaginare uno scenario nel quale occorresse sottrarre acqua alla popolazione per la costruzione dell’opera? Oppure una soluzione diversa, ovvero utilizzare la stessa acqua della sorgente proveniente da Buceto man mano che si avanzava da quella verso valle.

Ipotesi suggestiva, ma non infondata! Che impone di immaginare che la costruzione dell’acquedotto per tale punto di vista abbia imposto ai costruttori di ragionare in tal modo: iniziamo dalla sorgente, anche in maniera non del tutto definitiva, incanaliamo l’acqua verso valle, depositiamola anche in invasi temporanei man mano che occorre, ed andiamo avanti.   Una simile soluzione ovviamente sarebbe stata utile specialmente nel periodo estivo, quando la penuria di piogge poteva rallentare di molto l’avanzamento della costruzione.

Le impalcature di servizio, ovvero i ponteggi, necessari per poter affrontare in quota la costruzione, non poterono essere che di legname. Ovvero lunghi pali di castagno e tavolati, la cui provvista poteva benissimo essere realizzata dai castagneti dell’isola. Ma possono sorgere dei dubbi sulla sufficienza e sulla idoneità di tali fonti di approvvigionamento in quanto la necessità di legna da ardere della popolazione per la panificazione, il focolare domestico, la paleria per vigneti, ecc., imponeva tagli frequenti  dei boschi, e quindi una relativa povertà di idonei assortimenti mercantili.

Ciò nondimeno, la consistenza numerica della popolazione in quell’epoca molto più bassa di quelle posteriori, unitamente alla maggiore ricchezza di boschi, non esclude completamente l’ipotesi di una sufficiente dotazione di legname d’opera per quella necessità. Non improbabile anche l’integrazione di legname proveniente dalla terraferma.

La presenza di finestrelle rettangolari dislocate regolarmente e ancora oggi visibili sulle pilastrature, del tutto pervie a pieno spessore, indica la modalità di montaggio di quei ponteggi. La connessione tra le parti orizzontali e quelle verticali in quota probabilmente veniva realizzata con legature eseguite con cordame, e l’ausilio di chiodature solo per i punti di appoggio realizzati con tasselli di legno per evitare lo scivolamento verso il basso. Non è escluso un primo bloccaggio con chiodi di legno nei punti di giuntura tra le parti, previa foratura delle stesse. Il tutto finalizzato ad un uso versatile e parsimonioso della paleria impiegata, da spostare via via dal costruito in avanti.

Povertà tecnologica e strumentale sopperita dall’ingegno umano

La  scienza delle costruzioni affonda le sue radici nella storia remotissima delle civiltà. Non occorre qui indicare esempi a tale riguardo. L’acquedottistica mutua cognizioni di idraulica applicata che nelle ere remote attingeva ad intuizioni più o meno empiriche sulla fisica dei liquidi. Uno dei problemi principali che l’umanità ha dovuto affrontare riguardo alla destinazione e distribuzione dell’acqua in parti distanti dai punti di allocazione delle masse d’acqua disponibili, è stato da sempre il sollevamento delle stesse alle quote differenziate di utilizzo.

Per gli acquedotti antichi il principio del libero scorrimento per differenza negativa di quota tra punto di approvvigionamento e destino finale, e quello dei vasi comunicanti, è stato un caposaldo che ancora oggi trova le applicazioni pratiche più semplici ed economiche. Con il soccorso della scienza idraulica e le sue progressive acquisizioni sulle condotte forzate, il loro corretto dimensionamento, le regimazioni delle portate, l’introduzione dei dispositivi di sollevamento meccanico, i problemi anche più  complessi, hanno trovato soluzioni via via sempre più efficienti. Immaginare però nel pieno dei secoli XVI e XVII  di portare l’acqua da Buceto ( +o- 420 m s.l.m.) all’attuale Ischia Ponte, in un territorio orograficamente molto articolato e complesso, senza l’ausilio delle moderne tecnologie e con mezzi e strumenti di lavoro a dir poco rudimentali, deve poter raffigurare un quoziente di difficoltà oggi inimmaginabile.

La possibilità di commettere errori anche grossolani era molto alta. Ma ancora più alta era la necessità di affinare le modalità costruttive adeguandole ad un coefficiente di difficoltà altissimo dato dalla situazione dei territori da attraversare. Un semplice esempio può dare un’idea più appropriata al riguardo: affrontare un tratto di acquedotto in sotterranea implica lo scavo di un tunnel. Ma se la quota di scavo scende dal piano di campagna oltre un certo limite e si intercettano banchi rocciosi compatti e duri, si può pensare di avvicinare lo scavo più in superficie, fino al punto di intercettazione di profili di sottosuolo più abbordabili, ad esempio rocce tenere, terreno compatto e comunque di più facile attraversamento.

In questi casi, e dovendo superare depressioni del suolo intercalate da emergenze in rilevato, si ha la modificazione interrelata di variabili di progetto.  Si alza l’altezza in quota della struttura costruita, si riduce la profondità media di scavo dal piano di campagna in ipogeo. Il tutto per mantenere una pendenza costante ed adeguata della condotta. L’analisi costi–benefici, seppure fatta in modo empirico, anche quando fu costruito l’antico acquedotto del Buceto, si avvalse di siffatti ragionamenti.

Non v’è dubbio infatti che anche con il primo ordine di archi si poteva raggiungere lo scopo di recare l’acqua al suo destino finale. Con l’aggravante però di un cunicolo molto più profondo e soprattutto molto più lungo, come si può intuire dalla circostanza che individuando in una forma idealmente conica una collina da attraversare, più ci si avvicina alla base, più ampio è il suo diametro, e quindi la lunghezza totale del cunicolo stesso.

Alzare un secondo ordine di archi in quella circostanza fu valutato quindi più economico e fattibile rispetto ad uno scavo molto più profondo, ostico e di lunghezza molto più grande.

Una critica riguardo alla utilità e presunta dispendiosità dei pilastri

In uno scritto di Gino Barbieri, pubblicato su La Rassegna d’Ischia (N° 1 /2009, pagg. 5-8) , l’autore pone un dubbio circa l’effettiva utilità dei pilastri dell’acquedotto, e quindi di una presunta eccessiva e non necessaria dispendiosità dell’opera, nell’epoca in cui fu realizzata.

A supporto di tale tesi, l’autore cita un libello di autore anonimo, posseduto da un non identificato antiquario napoletano, e dal titolo “Costruzione dell’Acquedotto Isclano, Anno Domini 1675 ”  nel quale con dovizia di particolari sarebbe descritta la possibilità tecnica di far arrivare l’acqua alla città di Ischia per natural declivio attraverso “ le pendici dell’arso (o Cremato) , all’epoca sgombro di case e di alberi , per raggiungere in linea retta e speditamente in pendenza l’abitato di Borgo di Celsa attraverso una semplice condotta sotterranea di circa 3 chilometri (vedere cartina riprodotta a pag. 5).“

Ebbene, questa tesi ha molti punti obbiettabili, ed altri oscuri dei quali conviene discutere. Anzitutto la fonte appare perlomeno dubbia e su più fronti: un libello (parola di per se stessa dispregiativa che indica già un valore generale controverso), di autore ignoto, altra debolezza significativa, appartenente ad un noto antiquario, di cui però non si specifica il nome. Potrebbe trattarsi benissimo anche di un falso, fino a prova contraria.

Ma di più: se un autore cita un testo per averlo visto e magari letto, perché mai non lo esibisce, magari in fotocopia o con una semplice foto ordinaria?  Ma al di là di tutto questo, analizziamo bene la sostanza dell’obiezione: dal punto di vista tecnico ci potrebbe anche stare.

Ovvero una massa d’acqua che in media realizza un volume cospicuo da cui far derivare una portata di una certa rilevanza (mc.al minuto) convogliata in naturale declivio in una condotta chiusa, potrebbe effettivamente, calcoli idraulici alla mano, recare l’acqua su un percorso così ideato, ovvero da Buceto all’attuale Ischia Ponte. Ma si parla di una condotta sotterranea di 3 Km! E vivaddio l’Arso o Cremato non è ora né lo era nel XVII secolo, fatto di terra o di burro, ma di viva roccia trachitica, quindi scavare una trincea di 3 Km non era affatto impresa semplice.

Ma poi, se la piezometrica era tanto vantaggiosa, allora perché scavare una trincea? E ancora in sovrappiù: siccome nel tracciato rettilineo riportato sulla cartina si individua l’intercettamento appunto delle attuali pinete di Ischia, ed in particolare di quella oggi denominata PINETA DEGLI ATLETI, li dove esiste una depressione  più bassa della stessa Ischia Ponte, probabile che il percorso sarebbe stato alquanto  più  complesso e diversificato di quanto si voglia far supporre dall’ignoto (?) autore del fantomatico libello e dallo stesso Barbieri. Quindi anche opere in rilevato, trincee o cunicoli in viva roccia, ecc.

Tutto senza considerare che, come asserito dal Barbieri, nel periodo estivo la portata della sorgente si riduce ad un misero rivolo, che certamente si sarebbe perso nel percorso dell’Arso.  A queste obiezioni di natura tecnica, si aggiunge una circostanza non secondaria di ordine politico e sociale: Con l’acquedotto andavano serviti anche i casali di S. Antuono, San Michele, del Cilento, con la sua sede vescovile, e le altre viciniori. Occupate da famiglie importanti come i Mormile, i Zabatta, i Mellusi, i Lauro ed altre non meno importanti, che contribuirono alle spese dell’opera, compulsate dal vescovo Girolamo Rocca.

Come giustificare un percorso che passava per una zona brulla e disabitata, a scapito di altre popolate e con un’agricoltura fiorente?

Un cantiere multiforme e variegato

È certo che per la costruzione dell’acquedotto, occorse una gran quantità di manodopera. Non si sa bene, perché mancano notizie documentabili, ma si può ipotizzare che almeno una parte di quella molto specializzata, venisse dalla terraferma. Quantunque sull’isola potessero esserci ottimi muratori, carpentieri, tagliapietre, boscaioli, ecc. versati nell’arte. Una commistione tra primi e secondi, non è pertanto improbabile.

Già si è detto che per la produzione dei mattoncini di terracotta è poco attendibile che venissero dalla terraferma, in quanto la presenza notevole di fornaci sull’isola permettesse una produzione locale. Stessa cosa non si può dire con certezza dei cannoncini di terracotta impiegati per le condutture, nei tratti dove occorrevano. Una manifattura più complessa e la vetrificazione interna fanno propendere per un arrivo esterno dall’isola.

Per la manodopera ordinaria, non specializzata, possiamo dire subito che certamente fu la componente più numerosa e impiegata per le operazioni più pesanti ed anche pericolose, come ad esempio i passaggi sui ponteggi, lo spostamento ed il carico dei materiali, ecc.

Sicuramente si verificarono molti incidenti, della cui entità e gravità non esistono riscontri documentali. Gli aspetti positivi possono così riassumersi: La percezione di un salario quantunque modesto potesse essere, ma soprattutto la possibilità per giovani operai di fare un’esperienza formativa importante.

Per dirla in breve, passare dalla condizione di operaio generico, a quella di mastro muratore, scalpellino, carpentiere,ecc.

Il portale centrale carrabile dei Pilastri

Così come lo osserviamo oggi ci appare come la componente più nobile e meglio realizzata della intera opera.  Ma a ben notare, non si è mai parlato o scritto più di tanto per essa. Ritorna qui prepotente quel carattere di familiarità distratta con cui ho aperto questa trattazione. La mia ipotesi personale, che altri più documentati di me potranno confutare in ogni momento, senza che io possa dolermene, è che non è coeva alla costruzione dei Pilastri. Il ragionamento è molto semplice: posto che la funzione primaria dell’opera era quella di recare l’acqua dalla sorgente di Buceto ad Ischia Ponte e zone attraversate, e che per soddisfare il bisogno dell’acqua  potabile alla popolazione fu necessario innalzare di molto la tassazione con gabelle e balzelli sui beni alimentari, come si poteva giustificare la costruzione di un portale di più alto magistero costruttivo e quindi molto più costoso?

Se si osserva attentamente, quel portale è realizzato con molta accuratezza, con conci di pietra squadrati e non ad opera incerta come i pilastri e le arcate. Inoltre è abbellito da cornici sempre in pietra lavorata, e di modanature e spigoli rinforzati con mattoncini in cotto. La differenza costruttiva è tanto palese da divenire stridente. Le stesse dimensioni alquanto imponenti lasciano riflettere su questo punto.  La sua larghezza che oggi consente il passaggio anche di autoveicoli (camion ed autobus) molto grandi, non è compatibile con un assetto urbanistico e logistico molto misero dell’epoca in cui fu realizzato l’acquedotto.

Molto plausibile quindi che in quell’epoca non ci fosse necessità di un manufatto di quel tipo, e che quindi l’allineamento dei pilastri con arcate fosse continuo, ovvero senza soluzioni di continuità. Si trattava di aperta campagna, e probabile che al posto dell’attuale strada ci fosse un semplice sentiero di campagna che permetteva il passaggio di animali da soma, al massimo di qualche carretto.   L’ipotesi può in parte essere suffragata in modalità deduttiva  da quanto è dato leggere  nel volume “BARANO D’ISCHIA – storia“ di  G.G. Cervera e Agostino Di Lustro (edito a cura del Comune di Barano d’Ischia nel 1988, per i tipi di AMPA Napoli) a pagina 122  § dal titolo “ La rotabile (-) “, dove si legge: 

L’apertura del Porto, il commercio che si andava intensificando col Continente attraverso quel canale, indussero la Provincia alla costruzione di una strada rotabile che unisse i vari comuni dell’isola col Porto. Il Genio Civile -ing. Pansini- approntò un progetto, che allora apparve rivoluzionario, soprattutto per Barano, per il quale prevedeva l’abbandono di via Cava Nocelle per un percorso (nuovo) che resta quello attuale. Due volte deserte le aste (gare), i lavori furono affidati a trattativa privata alla ditta Casilli, che portò a termine i lavori in due anni.”   

Nel contesto del volume non si evince l’anno di inizio, e quindi nemmeno quello di ultimazione. Tuttavia la narrazione è inclusa nella vicenda della nomina a Sindaco del cav. Vincenzo Di Meglio nel 1869. Probabile quindi che la rotabile sia stata realizzata nei primi anni settanta del 1800, ovvero tra il 1871 ed il 1873. 

L’ipotesi della costruzione postuma del Portale, è suffragata anche da un altro elemento di tipo costruttivo. Alla misurazione della larghezza totale, esterno-esterno, del portale, si può evincere che quella è grosso il doppio di un singolo arco dell’acquedotto. E l’osservazione dei punti di contatto destro e sinistro, rivela delle sarciture che hanno ricomposto le interfacce dei pilastri che occorse tagliare, con le superfici laterali del nuovo portale. Altra ipotesi, meno realistica, è quella della costruzione del Portale nell’epoca successiva all’alluvione del 1910, allorquando il Real Genio Civile Italiano, le briglie lungo gli alvei, il canalone che costeggiava via Vincenzo Di Meglio e via Michele Mazzella, le alberate di pioppo nero di cui ancora oggi esistono dei relitti fino alle Pianole di Testaccio,  la piantumazione di robinie sulle pendici del Vezzi, ed anche in località Frassitelli  sull’Epomeo, ecc. 

In questa sede non si può dare nessuna certezza a queste ipotesi, quindi se altri avessero altre informazioni e documenti più attendibili al riguardo, potrà darne conto e contribuire quindi a fare ulteriore luce sull’argomento.

La storia di un’opera grandiosa e ambiziosa

A parte la falsità da taluni cavalcata con disinvoltura denominando l’opera come Acquedotto romano di Ischia , solo per la somiglianza architettonica dei più famosi  rinomati e veramente risalenti  all’epoca romana, il nostro acquedotto, è storia nota ai più che fu edificato in due epoche diverse, separate tra loro da circa un ottantennio tra il compimento dell’una e l’inizio della successiva. Due i protagonisti assoluti di questa storia, il primo in ordine di tempo fu Orazio Tuttavilla, governatore dell’isola d’Ischia, che nel 1580, ebbe l’incarico di sopperire alla cronica carenza di acqua del Borgo dei gelsi ( attuale Ischia Ponte) con la ricerca di nuove fonti di approvvigionamento eventualmente presenti sull’isola, e di addurle alla Città  di Ischia. La cronistoria degli eventi successivi è alquanto confusa, sta di fatto che il Tuttavilla, evidentemente con l’ausilio di informatori e conoscitori locali, individuò alla fine nell’antica sorgente di Buceto, sulle alture a monte dell’abitato di Fiaiano, ed alla quota di circa 400 metri sul livello del mare, la fonte idrica idonea allo scopo. 

Secondo alcuni in questa individuazione ci fu anche il concorso del medico calabrese Giulio Jasolino, che già sull’isola conduceva da tempo studi sulle fonti di acque e sulle loro proprietà medicamentose. Sembra che le opere di captazione delle acque dalla sorgente iniziarono nel 1581 con diversi manufatti idonei ad un primo incameramento e filtraggio dell’acqua con la tecnica dell’alluvionaggio, ovvero con passaggio in vasche riempite di pietrame di diversa granulometria per trattenere sedimenti terrosi di limo e argilla.

A seguire verso valle, i manufatti che servirono all’incanalamento dell’acqua in un tracciato studiato attentamente sia per ridurre il più possibile la lunghezza del percorso, sia per evitare l’eccessiva velocità di deflusso dell’acqua che poteva creare problemi di perdite per tracimazione o scavallamenti dalle canaline a pelo libero posate allo scopo lungo il tragitto. Mediante da es. la costruzione di vasche di smorzamento. Sembra che l’opera del Tuttavilla per difficoltà tecniche si fermò definitivamente nel 1586 in località Spalatriello, senza che venisse trovata una soluzione per superare la depressione che da quella posizione si prolungava fino alla collina di S. Antuono.

Una cosa è certa che il Tuttavilla si trovò ammorsato tra difficoltà tecniche e penuria finanziaria, e non riuscì a venirne a capo. Personalmente dubito che gli difettasse la capacità di risolvere il problema tecnico. Forse aveva già pensato alla soluzione, ma che fosse impossibilitato a risolverla solo ed esclusivamente per la scarsità di risorse economiche.

La seconda epoca è segnata dalla discesa in campo del vescovo Girolamo Rocca che si insediò nella diocesi di Ischia nel 1673, e diede un impulso formidabile alla ripresa della costruzione dell’acquedotto.  La provvista finanziaria in parte venne realizzata con risorse proprie del prelato, ma integrata con un inasprimento delle gabelle sui generi alimentari e con imposizioni non troppo tenere anche verso il clero, i maggiorenti ed i possidenti dell’epoca. 

Già nel 1675 ci fu la ripresa dei lavori laddove interrotti dal Tuttavilla, ovvero in località Spalatriello. I nuovi idraulici idearono la modalità ad arcate sovrapposte rette da pilastrature, secondo il modello degli acquedotti romani. E’ da notare come già il Tuttavilla avesse fatto ricorso a questa soluzione costruttiva in alto, a Fiaiano, laddove lungo via duca Degli Abruzzi, incastrati in alcune abitazioni, si possono osservare i relitti di un gruppo di archi, del tutto identici a quelli in più lungo percorso ora ancora esistenti nella piana dei Pilastri.

Già abbiamo fatto delle congetture abbastanza realistiche degli scenari che segnarono la costruzione di quello che ancora in gran parte è dato osservare, ovvero un doppio ordine di arcate fino all’innesto (oggi non più visibile) alla base della collina di S. Antuono, dove si proseguì in aggrottamento, ovvero con la produzione di un tunnel di modeste dimensioni, ma comunque sufficiente al passaggio di persone per  il controllo e la manutenzione delle condotte . Queste ultime non si sa bene se fossero interamente a pelo libero o fatte con tubature chiuse. E in quest’ultimo caso se costituite da elementi di ghisa oppure da canne di terracotta smaltata all’interno. Più probabile questa seconda soluzione in continuità tipologica costruttiva sia di quelli rinvenuti alcuni anni orsono lungo la strada di Ischia Ponte, nel tratto finale che conduceva verso la fontana dell’attuale palazzo dell’orologio, sia di quelli ancora visibili   al colmo del primo ordine di archi e di cui già si è discusso in precedenza.

Tuttavia sembra accertato che nell’intero percorso furono adottate soluzioni differenziate, e tra queste anche canaline libere semplicemente intonacate con malte idrauliche o rivestite da elementi di terracotta.  La cronologia riportata da alcuni autori (Gino Barbieri, op. cit.) indica nel 1678 la conclusione della orditura del primo ordine di archi. Non sembra attendibile la circostanza riferita sempre dal Barbieri del fallimento della prova idraulica compiuta in quell’occasione, e per la quale la fortissima pressione avrebbe prodotto l’esplosione delle tubature di cotto.

C’è in tale assunto una evidente contraddizione: lo stesso autore parla infatti di “rivolo d’acqua, abbastanza consistente nel periodo invernale, ma del tutto meschino in estate, (che) non avrebbe mai potuto superare con la sua misera pressione il notevole dislivello del terreno da attraversare ( la collina di S. Antuono).

Questo all’arrivo dell’acqua allo Spalatriello ad opera del Tuttavilla.  Salvo poi a riferire che, con i nuovi costruttori, realizzato il primo ordine di arcate… “ ..finalmente sistemati i tubi di cotto sulla sommità delle arcate…… La successiva prova idraulica si rivelò un completo fallimento: l’eccessiva pressione esercitata dalle acque precipitata a valle in forte pendenza, mandarono in frantumi le condotte”. 

Il Barbieri quindi prima parla di misera pressione e poco oltre di eccessiva pressione. È questa la palese contraddizione. La pressione o c’è o non c’è! Poi che le tubature di cotto si siano frantumate, è poco probabile. A meno di prove documentali certe e visionabili.

In primo luogo perché già in partenza erano state previste delle vasche di smorzamento della pressione, ed in secondo luogo perché in quella fase ancora non era stata affrontata la costruzione di un tunnel o di una condotta a cielo aperto per completare il percorso oltre la collina di S. Antuono, e poi verso la Città di Ischia. È quindi logico pensare che col primo ordine di arcate si fosse eseguita una prova idraulica parziale, ovvero di verifica di funzionalità dell’opera fino a quel punto, per poi proseguire nell’impresa. Ma evidentemente ci fu la verifica immediata dell’ostacolo insormontabile della eccessiva quota della collina. Ostacolo che suggerì quindi di innalzare un secondo ordine di pilastri ed archi.

Abbiamo già considerato che tra due soluzioni, si andava a privilegiare quella meno difficoltosa dal punto di vista tecnico, ovvero innalzare la quota degli archi per non affrontare lo scavo di un tunnel più profondo, lungo, incerto e ostico per il possibile intercettamento di banchi rocciosi.  Mettersi idealmente nella condizione di quei tempi, ci fa percepire la grande difficoltà di operazioni che ai tempi nostri sono invece risolvibili facilmente.

Immaginare ad esempio come si dovevano condurre i flussi di comunicazione lungo il percorso dalla sorgente, in basso verso ad esempio Lo Spalatriello ed oltre, e poi fino ad Ischia Ponte, quando si condussero le prove idrauliche. Oggi con telefonini, apparecchi radio, ecc., in tempo reale si può connettere un luogo ad un altro. All’epoca della costruzione si potevano usare bandiere o altri segnali convenzionali che però potevano ingenerare confusioni e fraintendimenti, oppure la dislocazione di tanti uomini a distanza relativamente breve, con un passaggio di informazioni precise in tempi ragionevolmente veloci. Una complicazione certamente non di poco conto, che rendeva tutto molto più complicato di quanto non sia oggi. Parlare quindi oggi, a distanza di oltre tre secoli, di imperizia, di fallimenti, mi sembra quantomeno ingeneroso.

Se le fonti documentali storiche ci dicono che nel 1685 l’opera fu completata e l’acqua iniziò a zampillare nella fontana  fatta apparecchiare dal vescovo Girolamo Rocca sulla piazzetta antistante l’attuale Palazzo dell’Orologio, con relativa lastra marmorea celebrativa, vuol dire che occorsero 7 anni per erigere le seconde arcate, bucare la collina di S. Antuono, scendere per l’attuale via Acquedotto, incanalarsi verso la località Cappella, incamerare l’acqua in una vasca di smorzamento in quel luogo (ancora oggi esistente e posta a servizio del Serbatoio Cappella) per poi farla defluire in basso attraverso via G. B. Vico (Puzzulana) ed arrivare finalmente nel Borgo dei gelsi, e da lì con una condotta interrata fatta da tubi di cotto smaltati all’interno, giungere alla fontana fatta erigere dal vescovo Rocca. Finiva lì la grande sete della Città di Ischia? Forse si, forse no!

Oppure certamente, una via di mezzo tra le due.  Sta di fatto che la condotta passava vicinissima al lungo e capiente piscinale  che raccoglieva l’acqua piovana della chiesa dello Spirito Santo e forse anche dei palazzi signorili fontistanti (Dell’Ogna), ancora oggi visibile nella sua intera estensione  , e posto a servizio  della popolazione e che ha funzionato fino agli anni cinquanta dello scorso secolo, ovvero fino alla realizzazione della prima condotta idrica sottomarina con cui si principiò ad affrancare l’isola dalla grande sete soprattutto estiva.

Quel piscinale fatto da cisterne concamerate e comunicanti tra loro, per una lunghezza di circa 30 metri, terminava nello spazio laterale ovest della chiesa dello Spirito Santo, e con diversi meccanismi in processo di tempo (una noria prima , una pompa a manovella in tempi più recenti, forse anche una carrucola,) permetteva ai cittadini di Ischia di approvvigionarsi di acqua. Ciò non toglie che quasi tutti i palazzi e le case del borgo fossero dotate di proprie cisterne di acqua piovana. Cisterne oggi quasi tutte in disuso   e convertite ad altri impieghi, (depositi commerciali, vani per usi diversi, ecc.).

La loro ispezione rivela molti particolari costruttivi, tra cui la speciale tecnica di impermeabilizzazione originaria fatta esclusivamente con malta idraulica nobile con una modalità di posa molto speciale, in dialetto conosciuta ad Ischia come “ rutton(e)” traducibile forse come “ aggrottone“, a significare qualcosa che si aggrappa tenacemente alle mura e le rende impermeabili, o qualcosa che si usa in ambienti ipogei, aggrottati, chiusi in basso.

Hanno scritto dell’Acquedotto

  • Giulio Jasolino: “ De Rimedi Naturali ..” (1588) con allegata cartina dell’isola del Cartaro (1586), ed una seconda carta dell’isola d’Ischia di Francesco Massari, allegata alla seconda edizione dell’opera dello Jasolino edita in Napoli nel 1689
  • Ragguaglio dell’isola d’Ischia de “L’Anonimo” (Vincenzo Onorato) , nella trascrizione di Ernesta Mazzella per i tipi di GUTEBERG pagg. 113-114.
  • Giuseppe D’Ascia – Storia dell’isola d’Ischia ( 1867) – pagg. 61-62;
  • Mario Caccioppoli – Centro Studi Su L’isola D’Ischia – Ricerche Contributi e memorie – Atti relativi al periodo 1944-1970 – comunicazione dell’adunanza del 8 ottobre 1944;
  • Gino Barbieri – La Rassegna d’Ischia N° 1 anno 2009 , pagg. 5-8 – “ L’ACQUEDOTTO DEI PILASTRI: archi inutili e dispendiosi?”;
  • Giuseppe Brandi: Conversazione con i Marinai d’Italia-sezione di Ischia , del 1 febbraio 2014 , presso la sede dell’Associazione in Piazza Antica Reggia , Ischia, sotto l’egida del Centro Studi dell’isola d’Ischia.

Altre opere che in qualche modo si raccordano all’Acquedotto o alla sorgente di Buceto

  • G.G. Cervera, Agostino Di Lustro – Storia di Barano d’Ischia – 1988-  pag. 122 – § La (costruzione della) Rotabile dell’Isola D’Ischia (.. ), vicenda collocata tra il 1871 ed il 1873, ed a cui ascrivere per deduzione la edificazione del portale principale dell’acquedotto dei Pilastri.
  • Ricciardi, Nazzaro, Caputo, De Natale, Gioacchino Vallariello – LA FLORA dell’Isola d’Ischia ( 2004). Pag. 17 – Famiglia betulaceae – ALNUS CORDATA (Ontano Napoletano)  presente sull’isola solo in località Buceto e la cui introduzione, secondo il BOLLE ( 1865) sarebbe stata opera del GUSSONE , artefice della costruzione dell’acquedotto 2° di  Buceto  detto anche acquedotto   Militare a servizio della Casina Reale e dei Bagni di Ischia.

L’aquedotto antico di Buceto oggi

L’amara constatazione che tutti possono cogliere è lo stato di totale abbandono di questo autentico monumento della nostra terra di Ischia. Ischia ha si una storia millenaria legata soprattutto alle tracce dei coloni greci che la popolarono nell’antichità e rinvenibili in diverse località dell’isola, soprattutto Lacco Ameno, ma è anche una terra tempestata da vicende vulcanologiche e tettoniche molto complesse, che nella sostanza l’hanno rimodellata a più riprese, con più che probabili occultamenti profondi di preesistenze anche molto antiche e significative, oggi non più rinvenibili.

L’acquedotto di Buceto è dunque a pieno titolo un monumento importante della nostra isola. La sua parte più in vista è certamente costituita dall’allineamento di pilastri ed arcate su due livelli che abbiamo descritto nelle pagine che precedono. Alcune porzioni sono state a suo tempo demolite per scopi pratici, mi riferisco soprattutto alla parte terminale dei pilastri verso la località S.Antuono. Le parti in ipogeo conformate a tunnel di collegamento tra i Pilastri, le vasche di smorzamento in località Cappella, e poi da queste a discendere verso Ischia Ponte attraverso via G.B. Vico, integrate da condotte in laterizio, sono sostanzialmente perse, o allo stato di relitti frammentati e non aventi più oggi,  nessun valore monumentale.

La sorgente sull’altipiano di Buceto è del tutto occultata da vegetazione infestante e quasi non più visibile all’occhio umano.  Il collegamento della sorgente con le parti dislocate in pendio verso la località Fiaiano, realizzate nel primo tratto con canaline sorrette da basse murature ed arcate, costeggiano  a monte un sentiero di più recente sistemazione che confluisce dai cedui castanili, in basso verso via Cretaio , sono in completa rovina , sovrastati da arbusti ed alberi che con le loro radici li hanno quasi del tutto destrutturati.

A discendere verso la località Fiaiano, ancora sono rinvenibili alcune opere, come la vasca di smorzamento sul lato destro di via Cretaio per chi la percorre in discesa, a breve distanza dall’attuale maneggio per cavalli. Manufatto che ha perso le sue originarie fattezze in decorso di tempo. Nel borgo di Fiaiano, sul lato destro in salita della strada che dalla piazza reca in alto verso il Cretaio, qualche centinaio di metri prima della chiesa diroccata che fu della famiglia Baldino, ed ora in corso di ristrutturazione, relitti abbastanza ben conservati delle antiche arcate costruite nell’era Tuttavilla. Da quel punto in avanti non sembra ci siano, emerse e visibili, tracce dell’antico Acquedotto di Buceto.

Le quali ricompaiono con il primo tratto dei Pilastri in località Spalatriello, edificato in muratura continua, ovvero senza il tipico modello a pilastrate sormontate da archi.

L’incrocio con il cosiddetto Acquedotto Militare

Fatto costruire sotto il regno di Ferdinando II di Borbone, vide come protagonista assoluto il celebre botanico di corte Giovanni Gussone , che soprattutto perseguiva lo scopo di recare acqua in quantità sufficiente per le esigenze del giardino del Casino Reale di villa dei Bagni, da lui stesso progettato e realizzato. Ma nondimeno integrato nella funzione di utilità pubblica per portare acqua potabile nell’abitato di villa Dei Bagni e borghi satelliti, con condotte indirizzate verso i piscinali in località Campetelle ( attuale via Morgioni) , Piazza antica Reggia ( ora sede dei Marinai d’Italia), e Chiesa di San Pietro.

Di quest’opera la parte più visibile e conosciuta è la sorgente da cui attingeva acqua, ubicata oltre il Piano San Paolo in direzione sud, e di cui ancora si può osservare la intera costruzione fatta di cisterne di raccolta concamerate e incuneate in gran parte nel fianco della collina soprastante. Altri manufatti ben conservati sono i torrini a pianta quadrata in laterizio dislocati con regolarità su tutto il percorso   dalla sorgente fino all’attuale Palazzo Reale di Ischia, passando per il versante ovest del Montagnone, e da qui a discendere verso via Nuova dei Conti, la collina dei Gelsi, fino alla Casina Reale. Di questo acquedotto ottocentesco, sarà d’uopo dedicare uno studio specifico che ci auguriamo di poter compiere nel prossimo futuro.

Una proposta e una sollecitazione per i comuni di Barano e Ischia per la salvaguardia e la valorizzazione dell’Antico Acquedotto di Buceto

I due comuni  confinanti sono quelli che condividono la proprietà territoriale della parte più in vista dell’antico acquedotto di Buceto, ovvero quello dei cosiddetti Pilastri. Ma il comune di Barano detiene la titolarità della parte forse più interessante dell’opera, ovvero la sorgente, a cui si unisce anche quella del più recente Acquedotto Militare, e le opere di canalizzazione e adduzione dell’acqua verso quello che fu il loro destino finale, ovvero la città di Ischia o Borgo dei Gelsi. Non dimenticando per il comune di Ischia le canalizzazioni in ipogeo (in tunnel stretto e basso) sotto la collina si S. Antuono, e poi da li verso il borgo di San Michele e a discendere verso la località Cappella e giù giù verso Ischia Ponte attraverso via G. B. Vico, ovvero la salita della Puzzulana.

La riflessione che ne viene è molto semplice: Si tratta, abbiamo visto, di un vero e proprio monumento che ha segnato un’epoca importante per la nostra isola. Purtroppo trascurata in massimo grado dai responsabili della cosa pubblica fino a mortificarne in maniera sensibile l’integrità strutturale, al punto da farne temere il crollo e la sua definitiva rovina per la parte più in vista, ovvero i PILASTRI. Mentre la restante parte, più volte ricordata, dalla sorgente a scendere verso valle, che forse o certamente è anche la più affascinante perché si collega ad una percezione naturalistica e geologica piuttosto rara per la nostra isola.

Ovvero l’antichità di una risorsa idrica spontanea in un paesaggio di rara bellezza, legata in maniera indissolubile alla storia antichissima e ed anche ammantata di un qualcosa di leggendario, delle genti che popolavano quei luoghi e che su di essi si portavano   per la loro  semplice vita di pastori o di contadini in connubio strettissimo con la ottimalità ambientale dominante in quei tempi remotissimi. Ecco, da queste semplici considerazioni nasce la necessità di recuperare il più possibile questa opera meravigliosa che ci è stata tramandata. Infatti si deve trattare di un vero e proprio recupero che deve vedere impegnate congiuntamente ed unitariamente le due amministrazioni comunali di Ischia e di Barano. Un progetto serio in tal senso non è cosa né difficile da allestire, né tantomeno difficoltoso da realizzare. E deve soprattutto essere integrale, ovvero riguardare tutte le parti del percorso dell’antico Acquedotto, dalle sorgenti fino all’attuale Ischia Ponte. 

I pilastri, in tutte le parti ancora visibili e stabili, quindi anche i relitti inglobati in abitazioni nel borgo di Fiaiano, vanno restaurati adeguatamente e messi in sicurezza. Le sorgenti vanno liberate dalle vegetazioni infestanti e recintate adeguatamente per evitare indebite ed arbitrarie introduzioni e vili atti di gratuito vandalismo.  Tutto il percorso tracciato e riportato in mappe ufficiali dei due comuni, identificato bene con una adeguata cartellonistica che oltre a segnarne il percorso ne tracci almeno in grandi linee la storia essenziale. Il tutto riportato sui siti internet ufficiali dei comuni di Barano ed Ischia, corredato da immagini significative e da un testo scritto di giusta dimensione che guidi il visitatore nella scoperta dell’opera nella sua interezza. Una simile operazione va inquadrata correttamente in un rinovellamento identitario e storico della nostra isola, che acquisti anche il valore di attrattore turistico, in uno alle altre innumerevoli risorse ambientali, paesaggistiche, naturalistiche e storiche del nostro paese.

Sarebbe auspicabile che in questo disegno venisse inglobato anche uno sforzo di assoluta positività nella crescita culturale della nostra gente, che inducesse ad una revulsione progressiva da atteggiamenti dal sapore a volte palesemente autolesionistico riguardo la dignità ed il valore morale complessivo percepito dall’esterno della nostra isola. Si percepisce infatti una sorta di mancanza di orgoglio di appartenenza. Orgoglio che può e deve essere suscitato da basi solide che non possono che giungerci dal nostro passato.

Francesco Mattera –